Storico dell'arte, scrittore, critico.
Organizzatore di importanti mostre di arte contemporanea.
Direttore del Settore Arti Visive della Biennale di Venezia.
Alla sua memoria è dedicata una biblioteca civica di Torino.
Luigi Carluccio nacque a Calimera, in provincia di Lecce, il 5 maggio 1911. Figlio di un insegnante elementare che, vincitore di concorso, aveva dovuto trasferirsi a Torino, frequentò il liceo classico Massimo d’Azeglio, dove conseguì la maturità classica nel 1929. Si laureò in Lettere, relatrice Anna Maria Brizio, discutendo una tesi su La decorazione dell’età barocca a Lecce, scelta in omaggio della propria terra natale.
Carluccio iniziò a interessarsi di arte, come egli stesso amava ricordare, «in tempi eroici»; fin dal 1928, diciassettenne, era stato attirato dalle prime mostre d’arte moderna: i Sei di Torino alla Galleria Guglielmini, le mostre organizzate dalla Galleria Codebò. Fu allora che iniziò a immaginare uno spazio proprio, dove approfondire quell’universo artistico verso il quale si sentiva così portato.
Cominciò a scrivere come cronista e critico d’arte nel 1934 su “L’Avvenire d’Italia”, uno dei pochi fogli non di regime, e sulla rivista “Arte Cattolica”, fondata nel 1934 e pubblicata fino al 1935, di cui fu redattore. In un articolo, Carluccio confesserà di cercare, nell’arte, «quel senso caldo e appassionato che abbiamo della vita», riecheggiando il manifesto Letteratura come vita che Carlo Bo pubblicò sulla rivista fiorentina «Il Frontespizio».
Ben presto però, come per molti altri giovani, iniziò per Carluccio la lunga stagione dell’impegno militare, con i trasferimenti da un fronte all’altro.
Luigi Carluccio, fu quindi chiamato a combattere in Abissinia (1935-1936), in Albania (1940-1941) e in Russia, sul fronte del Don (1942-1943).
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, come tenente di artiglieria alpina del II reggimento, gruppo «Bergamo», della divisione Tridentina, venne catturato dai tedeschi e internato in diversi campi. La sua parabola di prigioniero parte da Deblin-Irena, in Polonia, per arrivare a Lathen-Oberlangen e a Wietzendorf, in Germania, dove rimase fino alla liberazione, nella tarda primavera del 1945.
Durante la lunga prigionia Carluccio disegnò con i mezzi di fortuna che si potevano trovare nel campo, scambiando fogli di carta con preziose razioni di pane. Nei suoi disegni, poche sono le raffigurazioni di circostanza, le scene di genere. Sono per lo più ritratti compagni e amici, i loro volti smorti, gli sguardi impietriti, le figure giacenti dove le membra sono ritratte in una stanchezza plumbea e prostrante.
A Wietzendorf, nella Pasqua del 1945, partecipò all’organizzazione di una mostra d’arte nel campo, raccogliendo i disegni, fra gli altri, di Mario Negri e di Leone Pancaldi, ai quali, anche negli anni successivi, rimase particolarmente legato.
Tra gli altri ufficiali italiani reclusi nell’Offizierlager (campo di prigionia per ufficiali) di Wietzendorf, si ricordano lo scrittore Giovanni Guareschi, l’umorista, pittore e illustratore Giuseppe Novello, lo scultore Mario Negri, il giornalista Stelio Tomei, futuro collega di Luigi Carluccio alla “Gazzetta del Popolo”. Con quest’ultimo, Carluccio organizzò nel Lager il concorso letterario Fine stagione, il cui premio consisteva in una razione di pane.
I disegni realizzati in quegli anni furono anche, per Carluccio, un modo per sopravvivere. Quella dell’internamento fu un’esperienza che lo segnò profondamente, spingendolo a mantenere nei suoi confronti un apparente distacco, quando non a nasconderla, quasi a volersi proteggere da una pena segreta.
Rientrato a Torino, Luigi Carluccio fu il critico d’arte prima del “Popolo Nuovo”, quindi della “Gazzetta del Popolo”. Dal 1947 al 1955, diresse la Galleria La Nuova Bussola di via Po.
In un’intervista racconterà: "La Bussola diventò in due anni una galleria che a Parigi era conosciuta come una delle poche italiane, per non dire la sola, che interessasse veramente. È stata una lotta feroce portare qualcuno a comprare non più Pasini ma De Pisis. Poi questo qualcuno è arrivato a Rohtko e alle cose concettuali". Oltre a De Pisis, la Bussola accoglierà, fra gli altri Carrà, De Chirico, Savinio, Morandi, Sironi, De Pisis, Ensor, Fuchs, Klee, Kandinskij, Chagall, Braque, Marisa Merz.
Nel gennaio del 1955 riceve il premio internazionale della Giuria della Biennale di Venezia, per una serie di articoli pubblicati su "Gazzetta del Popolo" e su "Gazzetta Sera" di Torino.
Affiancato da Vittorio Viale e da Mario Becchis, organizzò dal 1951 al 1961 le sette edizioni di Pittori d’oggi. Francia-Italia. Lo stesso Carluccio riconobbe a Vittorio Viale di aver sostenuto quell’iniziativa "con un coraggio straordinario: l’impresa era contro la sua cultura, contro la sua tradizione".
Nell’ultima fase della sua vita scrisse sul “Giornale” di Indro Montanelli e su “Panorama”.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, Carluccio curò, alla Galleria Civica d’Arte Moderna, quattro memorabili mostre patrocinate dall’Associazione Amici torinesi dell’Arte Contemporanea: Le Muse Inquietanti. Maestri del Surrealismo (1967), Il sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti (1969), Il Cavaliere Azzurro (1971) e Combattimento per un’immagine (1973).
Fu questo un periodo folgorante per la sua carriera di critico e di interprete dell’arte. Non furono solo mostre, bensì appuntamenti culturali destinati a diventare altrettanti punti di riferimento nel panorama artistico, non solo torinese.
Nel 1967 si recò a Cuba insieme all’amico e pittore Ezio Gribaudo per partecipare alla lavorazione collettiva del Grande Murale. Entrambi firmarono, con altri importanti artisti e intellettuali, un manifesto di solidarietà per la preparazione e apertura del congresso internazionale “Congreso Cultural de la Habana”, che si sarebbe tenuto nel gennaio del ’68.
Carluccio fu un critico errante, che amava viaggiare, assaporare il gusto della scoperta, arrivare per primo e svelare cose non viste da altri. Per questi motivi preferì il lavoro sul campo, frequentando gli studi, le mostre, gli artisti, piuttosto che gli archivi. La sua profonda sensibilità legò conoscenze ed esperienza, rifuggendo da discorsi generali e astratti. Tutto questo con uno scopo ultimo: cercare il personaggio dietro «le impennate del pittore», scavare entro le tecniche, entro gli stili per capire dove stava nascendo un talento, dove c’era poesia.
Questo bisogno di andare in profondità si ritrova nei suoi disegni di prigionia, dove quell’umana fraternità è oggetto e soggetto della sua testimonianza dei campi d’internamento.
Nel giugno del 1979 Luigi Carluccio fu nominato direttore del Settore Arti Visive della Biennale di Venezia, anche in ragione di un ormai avvenuto riconoscimento di critico di fama internazionale ed esperto organizzatore di eventi culturali.
Nel 1980, malgrado tempi tecnici e organizzativi ristretti, presentò diverse mostre. Una delle più importanti fu sicuramente quella dedicata a Balthus, allestita nello straordinario spazio della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista e per la quale ricevette numerosi riconoscimenti a livello internazionale.
Al terminare di questi eventi si mise subito al lavoro per la preparazione della Biennale che si sarebbe svolta nel 1982.
Aveva pensato alla Biennale come a un’occasione per dare luce a chi germoglia nell’ombra, per svelare ciò che è coperto. Il critico errante, pioniere dell’arte contemporanea in una Torino che, allora, stava iniziando un lento e profondo processo di cambiamento, spiegò di volere una Biennale che avrebbe dovuto «presentare la realtà “quale” le viene offerta», libera dall’omaggio alle mode del momento. La faccia nascosta della luna sarebbe dovuto essere il titolo di questa importante manifestazione italiana dell’estate ’82. Ma il 12 dicembre 1981 Carluccio moriva improvvisamente a San Paolo del Brasile, dove si trovava in qualità di direttore di quella Biennale che non riuscì a inaugurare.